L’arma psicologica contro i paesi non allineati all’occidente

Negli ultimi anni tanti termini si fanno strada nel vocabolario occidentale con l’intento di incasellare, dando caratteristiche positive, ma più spesso negative, fenomeni e persone, quasi deumanizzandoli e spesso estrapolandoli dal contesto, creando uno schema privo di una visione d’insieme che però ha lo scopo preciso di delegittimare. Oltre alle sempre più parcellizzanti categorizzazioni di genere, spuntano anche gli elenchi infiniti di patologie che sono affibbiati a comportamenti spesso anche normali o perlomeno non patologici dell’essere umano. E così, la tristezza diventa depressione, l’ossessione un disturbo compulsivo, la strafottenza narcisismo. Ed è proprio su quest’ultimo temine che vorrei soffermarmi in questo articolo, in quanto concetto estremamente abusato sia per denigrare delle persone, ma anche per delegittimare interi sistemi politici.

Come si vede in un documentario di scarsissima qualità, uscito su Netflix dal nome “Come diventare tiranni”, la diagnosi di narcisista viene affibbiata ad ogni capo di stato che non risponde ai canoni della democrazia liberale. La serie, divisa in sei puntate, narra in ciascuna di esse la storia di un “dittatore” cercando di delegittimarne la popolarità, le conquiste sociali ed economiche e la stabilità politica. Ovviamente si parte da Hitler come metro di paragone in negativo obbligato. Si sentono assurdità come la nazionalizzazione del petrolio di Saddam Hussein che sarebbe stata “un furto alla collettività” per riempire le tasche del regime (lasciarlo ai privati sarebbe libertà?!) e ancora che i prezzi bassi servivano a conquistare il popolo per farsi amare (riportando la questione su un bisogno patologico d’inganno).

La locandina della serie di Netflix Come diventare tiranni.

E qui la chiave di lettura sulla natura narcisista di questi “dittatori”: manipolatori, bugiardi, che pensano solo a loro stessi e alla loro fama. Così si spigherebbe l’impostazione del regime, passando da Saddam Hussein a Stalin, da Gheddafi a Kim Il Sung. Questi personaggi vengono quindi denigrati senza contesto, cercando di spiegare la sopravvivenza del sistema politico ed economico di quei paesi unicamente nella presunta smania di potere e culto della personalità dei propri leader, patologizzandoli e quindi delegittimandoli nelle lotte che hanno affrontato, schernendo i popoli che vivono e credono in quei sistemi, contribuendovi attivamente, e lasciando come alternativa “sana” solo il nostro sistema liberal-democratico. Mettere tutto nel medesimo calderone (fascisti, comunisti, islamisti, ecc.) destoricizzando le dinamiche politiche, culturali ed economiche che stanno alla base delle costruzione di un determinato sistema istituzionale serve a confondere e nel contempo a infondere un dogma: l’unica buona società, insomma, è quella liberale atlantica.

Questa patologizzazione fa parte del modo in cui la società estremamente atomizzata e individualista di oggi mantiene lo status quo: ogni persona viene convinta di poter dare giudizi (anche medici) senza il benché minimo problema, e additare chiunque faccia qualcosa che non ci piace (o che semplicemente non capiamo) come malato, e quindi sbagliato, e infine malvagio, quindi ancora da far soccombere, da eliminare. Infatti, il ragionamento non si ferma di certo alla patologia: prendiamo Putin, che viene sovente descritto con termini come “narcisista”. L’obiettivo è descriverlo come malvagio per via di un’impostazione di personalità (quella narcisista, per l’appunto) che lo porterebbe a fare scelte politiche non razionali ma unicamente improntate alla soddisfazione della sua malata (e malvagia) visione del mondo; è quindi necessario che sparisca, per il bene del popolo russo. L’arroganza che questi ragionamenti racchiudono in sé, tralasciando la banalizzazione estrema della cosa, fanno indignare. È infatti assurdo pensare che ogni sistema non liberale si sviluppi unicamente perché una persona ha dei tratti di personalità di un certo tipo. Un paese ha una storia, una struttura sociale e un’economia complesse che nel loro insieme s’intrecciano in un processo che ne definisce la struttura politica, che può essere scossa da rivolte e rivoluzioni ma che sempre parte da questi assunti. Non dalla semplice “follia” di un singolo, che anche nei paesi più autoritari sicuramente non governa da solo.

La superficiale equiparazione di tutte le “dittature” ha lo scopo di evidenziare il liberalismo come unico sistema valido.

Il tentativo riguarda tutti, anche Xi Jinping, che in alcuni documentari è stato descritto come “assetato di rivalsa” per via della storia della sua famiglia. Quindi, dietro c’è sempre un’estrema individualizzazione dei processi storici, come se l’avanzata della Cina e le sue posizioni dipendessero unicamente dalla storia personale di un singolo. Possiamo dire, con certezza e buona pace di documentaristi, giornalisti e scrittori, che non è così. Chi seriamente studia le scienze umane come la storia e la sociologia lo sa più che bene. Certo, i singoli possono portare in avanti processi storici anche importanti, come fecero Mao e Lenin nelle rivoluzioni, ma senza il popolo dietro, le precarie condizioni di vita e le guerre sempre presenti, difficilmente ci sarebbero stati quei processi rivoluzionari. L’individualizzazione di questi processi serve a trovare un nemico chiaro che le masse – in occidente – possono odiare e incolpare per tutto quello che – sempre in occidente – viene detto su di loro. Una propaganda infima, che serve a cercare il consenso di massa per il fine ultimo che è quello dell’annichilimento di quei sistemi alternativi, con qualsiasi mezzo, anche la guerra se necessario. Questo lavaggio del cervello avviene sistematicamente attraverso ogni mezzo di comunicazione culturale possibile: da qualche anno anche nei Festival cinematografici occidentali ormai i film sono tutti costruiti intorno a una narrazione esclusivamente para-psicologica oltre che individuale, cioè avulsa dalla complessità storica e socio-politica di un fenomeno; ciò è voluto per forgiare la mentalità di chi li guarda, soprattutto gli intellettuali e i giovani accademici che sono il target di queste kermesse.

Noi comunisti ci opponiamo a questo lavaggio del cervello e comprendiamo che la realtà è ben diversa: molti popoli nel mondo si stanno emancipando e stanno acquisendo forza, e questo mondo multipolare agli Stati Uniti e all’Unione Europa fa paura, spingendoli a una sempre più presente e specifica propaganda al passo con le ultime mode, che siano i diritti umani o l’analisi psichica del capo di stato di turno. L’obiettivo è portarci a pensare che siamo in pericolo, che quest’onda “dittatoriale” e “narcisistica” ci travolgerà, trascinandoci inesorabilmente verso un conflitto che si svilupperebbe progressivamente in una guerra totale fra Occidente e resto del mondo, e che combatteremo noi per loro, per difendere questa “liberal-democrazia” che serve a loro, non a noi. Noi non ci stiamo e respingiamo con forza queste visioni del mondo. Noi vogliamo una pace e una prosperità durature; come dice la Cina, “un’umanità dal futuro condiviso” e per questo serve rispetto per quei paesi diversi e distanti dai nostri.

Samuel Iembo

Samuel Iembo è stato dal 2015 al 2020 coordinatore della Gioventù Comunista Svizzera. Dopo la maturità presso la Scuola Cantonale di Commercio di Bellinzona, ha iniziato un percorso accademico.