Davvero prezioso e interessante il documentario “Il pianeta degli umani” di Jeff Gibbs e co-prodotto da Michael Moore, fino a qualche tempo fa vedibile su YouTube e poi rimosso per una presunta violazione di diritti messa in atto da terzi, contrari al film. Con evidente chiarezza e correttezza il documentario delinea come sia impossibile per l’energia verde, soprattutto quella attuale soffocata dalle fondazioni speculative, salvare l’umanità, quasi otto miliardi di esseri umani che consumano oggi molto di più di quanto la capacità rigenerativa della terra sia in grado di restituire.
La riduzione dei terreni agricoli e l’esafluoruro di zolfo che inquina più del CO2
I terreni agricoli hanno raggiunto venti anni fa un terzo della superficie planetaria, ma ora si stanno riducendo – in molti casi per l’aridità successiva a uno sfruttamento intensivo – e in ogni caso utilizzano troppo petrolio, ovvero le macchine industriali, le sole tuttavia che garantiscano una produzione a livelli sufficienti per provare, non sempre riuscendoci, a sfamare tutti gli abitanti della terra. Il pesce è prodotto in allevamenti non meno problematici di quelli di bovini e suini, solare ed eolico si appoggiano su un consumo di risorse minerarie colossale, necessitando ad esempio di esafluoruro di zolfo che è 23mila volte più inquinante del CO2, centrali solari ed eoliche statunitensi abbandonate sono uno spettacolo allarmante, anche perché per costruirle si sono distrutti ecosistemi secolari nei deserti e annientati boschi, per di più tutte necessitano di carbone o di gas naturale per funzionare, perché sole e vento non ci sono sempre e l’accumulo di queste forme di energia è ancora più costoso e inquinante.
Disboscare l’Amazzonia per… “salvare le foreste” (sic!)
Dal punto di vista ecologico è poi ancora più catastrofico il passaggio dalle centrali a carbone a quelle a biomassa, ovvero che bruciano legno degli alberi disboscando, l’esempio sempre statunitense è devastante, centinaia di migliaia di alberi tagliati in un disastro apocalittico, perché tutte le piante degli Stati Uniti basterebbero a far funzionare le centrali solo per un anno e per far ricrescere gli arbusti occorrerebbero un paio di secoli, ma in più le centrali a biomassa, aumentano il calore con pneumatici usati, ovvero plastica, con il risultato che le loro emissioni sono altamente tossiche. C’è anche di peggio, dalla Gran Bretagna alla Germania le centrali a biomassa importano legna da tutti i continenti, in sostanza si disboscano l’Amazzonia e le foreste del Congo per … “salvare le foreste”!
Movimenti ecologisti ostaggio del capitalismo green
Abbastanza deprimente, ma prevedibile, ascoltare i giovani statunitensi in piazza per il clima e l’ambiente esprimersi a favore delle biomasse e contro il taglio degli alberi, senza conoscere la correlazione esistente tra distruzione ambientale e biomasse. Pietosa e raccapricciante la sfilata imbarazzata e muta dei dirigenti dei movimenti ecologisti a stelle e strisce che prima pontificano dal palco a favore delle biomasse, poi incalzati dalle domande del regista si ammutoliscono, evitano, scappano, anche perché come appare evidente dai documenti presentati, hanno interessi economici nello sviluppo delle biomasse.
Solo Vandana Shiva non esita a definire criminale distruggere boschi e foreste per produrre materiale per le centrali a biomassa, dichiarando apertamente che è un camuffamento della vecchia industria petrolifera che intende perpetuarsi. Si scopre infatti che gli uomini della Goldman Sachs, di un altro numero considerevole di banche, di multinazionali petrolifere, sono parte del progetto, che ha una copertura politica in Al Gore, di cui si smaschera il ruolo rilevante nella distruzione dell’Amazzonia, nella trasformazione in biocarburante dei mammiferi, dai cavalli ai coccodrilli, nella distruzione di interi eco-sistemi marini con la scusa di recuperare energia dalle alghe. Gore cerca, in verità non riuscendoci, di giustificarsi in una penosa audizione del Congresso statunitense.
Il documentario non ricorda, ma noi lo sappiamo oggi con precisione, che le deforestazioni portano a migrazioni animali che sono anche all’origine delle pandemie virali, come quella che ha segnato l’umanità nel 2020, a prescindere dalla loro implementazione dovuta allo sviluppo delle tecniche relative alla guerra batteriologica.
L’ecologia deve tornare sociale e popolare

Il film denuncia con precisione disarmante come il capitalismo occidentale, il peggiore e più distruttivo per le sorti del pianeta, abbia colonizzato i movimenti ambientalisti, svuotandone il senso e il significato e offrendo micro-tappe estemporanee e non sempre realmente concrete, come la lotta al carbone.
Il documentario tuttavia non è composto solo di denunce o di auspicate buone intenzioni, invita, con radicalità, a partire da un ritorno al controllo da parte dei cittadini dei movimenti ecologisti, oggi occupati dai miliardari, con la consapevolezza che la limitatezza della terra non permette una crescita infinita dei consumi. Tutto giusto e tutto condivisibile, tuttavia vale la pena compiere un passo più in là, che ovviamente un film statunitense non può compiere, ovvero constatare che senza ombra di dubbio il problema principale, sociale ed ecologico, del pianeta, si chiama capitalismo.