I BRICS riuniti a Johannesburg, fra estensione dell’organizzazione e dedollarizzazione degli scambi

Si è concluso lo scorso 24 agosto il XV summit dei BRICS, svoltosi a Johannesburg. Anche se buona parte dei media occidentali non ha perso nemmeno questa occasione per ridicolizzarsi – spendendo per esempio prioritariamente fiumi di inchiostro circa la presunta umiliazione di Putin, costretto, oltre a non partecipare fisicamente all’evento, ad assistere nel corso del medesimo all’allunaggio indiano a pochi giorni dal fallimento del modulo russo – va detto a onore del vero che si è trattato (finalmente) del primo incontro annuo di questo tipo ad aver suscitato una così grande attesa e mediatizzazione ancora prima del suo svolgimento. E le ragioni sicuramente non mancano.

La crisi c’è, ma riguarda solo noi

L’organismo che riunisce Cina, Russia, Brasile India e Sud Africa, dato ripetutamente per morto negli anni e i cui membri sono stati a più riprese condannati dalla stampa europea come prossimi al collasso finanziario ed economico, rappresentano oltre il 40% della popolazione mondiale e sono passati (operando un confronto in termini di parità di potere d’acquisto) dal contare il 19% nel PIL globale nel 2002 a oltre il 31,6% nel 2022, contro il 30,3% nel 2022 del G7 (la cui quota nel 2002 era superiore al 40%). Oltre alla sottoscrizione della dichiarazione II di Johannesburg, dove si riaffermano i principi dei BRICS, ossia di legami di cooperazione fondati sulla sovranità dei partner, l’inclusione, il dialogo e rispetto reciproco, i punti fondamentali del summit sono stati sostanzialmente due: l’accordo raggiunto per procedere a un graduale allargamento dei paesi membri e l’esplicita volontà di porre fine alla dipendenza del dollaro.

Il declino irreversibile dell’Occidente

Per quanto riguarda il primo punto, sono infatti stati invitati a fare parte dei BRICS, a partire da gennaio 2024, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Etiopia e Argentina (su quest’ultima occorre ancora cautela, visto le imminenti elezioni che potrebbero stravolgere i numeri in parlamento necessari a ratificare l’ingresso). Questi nomi sono già di principio indicativi dei mutamenti in atto a livello globale a cui assisteremo nei prossimi anni, con l’Egitto che controlla l’importante canale di Suez e L’Etiopia che è diventata nel tempo uno dei principali hub del traffico aereo e commerciale cinese in tutta l’Africa, continente le cui principali potenze sono ora da Nord a Sud, se non direttamente schierate contro l’Occidente, sicuramente più interessate e fiduciose nei confronti della via di sviluppo di un mondo multipolare proposta da cinesi e russi in primis.

Le tensioni fra Arabia Saudita ed Iran sono diminuite grazie al ruolo mediatore della Cina.

Ma tutto ciò denota anche l’inequivocabile fallimento strategico degli USA in Medio Oriente. Coltivata dagli statunitensi nei decenni, la rivalità saudita-iraniana è stata magistralmente gestita dalla Cina: Pechino, infatti, ha compiuto un capolavoro diplomatico convincendo i due paesi a riaprire le relazioni diplomatiche (un’altra notizia fondamentale mai approfondita dalla stampa occidentale). L’aggiunta degli Emirati Arabi Uniti segna un ulteriore bastione sottratto alla Casa Bianca. Oltre alle frizioni in progressivo superamento, la nuova composizione dei BRICS deciderà quindi del 42/47% circa della produzione mondiale di petrolio. E questo è fonte di ancora maggiore preoccupazione per gli USA, che de facto perdono il controllo residuo che ancora avevano sull’OPEC+ e quindi sul controllo geopolitico dell’energia e dei suoi prezzi. Ma è anche un ulteriore passo del progressivo venir meno del binomio dollaro-petrolio che ha permesso per decenni a Washington di mantenere la propria supremazia e il suo sistema economico fallito a spese del resto del mondo. 

E arriviamo infine al secondo punto: il graduale processo di svincolamento del mondo dall’architettura monetaria attuale, la cosiddetta “dedollarizzazione” che, fra gli altri, l’analista marxista Gianfranco Bellini aveva intuito nel libro “La Bolla del Dollaro” uscito postumo nel 2012 per i tipi di Odradek.

Prosegue il tramonto del dollaro

Il processo è iniziato almeno dieci anni fa e avviene principalmente attraverso diverse iniziative commerciali e politiche, pensiamo agli accordi tra Russia e Cina nel 2014 per l’utilizzo della moneta cinese per l’acquisto di gas russo o alla nascita del Petroyuan nel 2018, di cui in Ticino aveva parlato solo sinistra.ch (leggi qui).

Dall’inizio della guerra in Ucraina, tuttavia, a seguito delle sanzioni senza precedenti imposte dagli USA, all’uscita forzata della Russia dallo SWIFT e al congelamento delle sue riserve in dollari, oltre ai BRICS molti altri paesi si sono resi conto che lo stesso sarebbe potuto accadere a loro e che un’esposizione troppo ampia in dollari avrebbe potuto rappresentare un rischio non trascurabile. Ecco, quindi, che le valute locali verranno sempre più spesso adoperate negli scambi, bypassando il biglietto verde, e proprio questa settimana la Nuova Banca di Sviluppo – l’istituzione finanziaria nata dagli accordi raggiunti al sesto summit dei BRICS nel 2014 – ha dichiarato per bocca della sua presidente Dilma Rousseff, che inizierà a concedere prestiti in valuta locale e senza applicare le condizioni che caratterizzano solitamente i prestiti del FMI.

L’ex-presidente brasiliana Dilma Rousseff sta lavorando ad una nuova architettura finanziaria mondiale.

A ciò si aggiunge l’intenzione, di cui si è parlato più volte, di fondare in futuro, se non ancora una vera e propria nuova moneta dei “BRICS”, perlomeno una nuova architettura monetaria internazionale in alternativa al vecchio sistema che ha sempre meno ragione di esistere e che serve esclusivamente da colonna portante dell’imperialismo atlantico (in particolare americano).

E la Svizzera che fa?

È evidente che sia il processo di de-dollarizzazione sia lo sviluppo dei BRICS richiederanno molti anni, ma proprio per questo occorrerebbe approfittarne fin da subito e prepararsi al nuovo contesto multipolare in arrivo poiché, che ci piaccia o meno, ciò comporterà profondi mutamenti, anche e soprattutto per l’Occidente. La Svizzera, paese neutrale, che non fa parte di organismi quali Unione Europea o la NATO e che vanta una lunga tradizione diplomatica, avrebbe potuto giocare un ruolo di ponte e avvicinamento tra Oriente in ascesa e Occidente in declino. Purtroppo, parte della classe dirigente si è arresa ai diktat atlantici e a prevalere finora è stata una linea di totale subordinazione a Washington, prima adottando le sanzioni dell’UE nei confronti della Russia (con la direttrice uscente della SECO che si è già spinta oltre preannunciando sanzioni alla Cina in caso di un conflitto con Taiwan), poi rimettendo in discussione il concetto stesso di neutralità elvetica, arrivando addirittura a valutare l’esportazione di materiale bellico all’Ucraina, mentre quotidianamente si levano sempre più voci sulla necessità di un’adesione alla NATO stessa. Tutto questo mentre sul fronte economico assistiamo a un’esposizione spaventosa in dollari e titoli ad alto rischio da parte della nostra Banca Nazionale che ha anche svenduto negli anni le riserve d’oro che deteneva, mentre proprio i BRICS e molte banche centrali ne acquistano a ritmi sostenuti.

I comunisti lo avevano previsto dieci anni fa

Qualcuno però in tempi non sospetti, quando nessuno parlava ancora né di multipolarismo né di de-dollarizzazione, già aveva previsto quello che oggi è sotto gli occhi di tutti: occorrerebbe anche giornalisticamente iniziare ad ammettere che l’unico soggetto politico che già dal 2013 insisteva con lungimiranza su questa prospettiva era il Partito Comunista. I comunisti svizzeri insistono costantemente sulla necessità di prendere atto del nuovo assetto globale in divenire, e quindi diversificare i propri partner commerciali per svincolarsi dalla dipendenza al mercato atlantico in declino e aprirsi maggiormente con quei paesi emergenti che oggi, infatti, iniziano a pianificare le nuove regole del sistema mondiale.

Già allora i comunisti criticavano l’agire del governo elvetico – e delle istituzioni annesse come per esempio la BNS – troppo prono ai diktat atlantici e contrario ai suoi stessi interessi nazionali. Lo stesso discorso diventa oggi ancora più urgente quando l’unica alternativa possibile al tentativo in atto di archiviazione della neutralità elvetica per servire gli interessi altrui, non potrà che essere un’adesione, fosse anche lenta e subdola, alla NATO e/o all’UE. Per questo motivo i comunisti, coscienti della priorità storica del momento, hanno deciso di presentarsi alle elezioni federali sotto il nome di “NO UE – NO NATO”.

Alberto Togni

Alberto Togni (1994) è membro della Direzione del Partito Comunista (Svizzera) e consigliere comunale a Gordola. In passato ha ricoperto ruoli nel Sindacato Indipendente degli Studenti e Apprendisti (SISA).