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Un Nobel per la Pace ad Eva Feistmann

L’intervento militare francese in Mali (già colonia francese, oggi feudo di Parigi) – tanto diretto e rapido, quanto da tempo premeditato – è letto da molti come la prima saggia decisione in Africa, dopo secoli di colonialismo irresponsabile. Il fatto di contrapporsi all’attività guerresca di estremisti islamici ha permesso di postulare l’intervento come necessità impellente.

Di questo avviso Eva Feistmann (PS), ex-Granconsigliera e attuale Consigliera Comunale a Locarno, che in un allucinante articolo (CDT, 30 gennaio) ha espresso incondizionato sostegno all’azione militare. Parafrasando il gergo statunitense post 11 settembre, la Feistmann fa assurgere il celeberrimo “terrorismo” come motivazione più che sufficiente all’avventura francese, dando dei visionari a chi intravedeva motivazioni geo-economiche. Questa grave uscita – che glorifica la prosecuzione delle ingerenze francesi sulla sovranità maliana e affossa tutta una tradizione di sinistra fondata su pacifismo e anti-imperialismo – è macabra e indecente. Il combattimento del “terrorismo” attraverso missioni militari eterodirette ha mostrato insensatezza in Iraq e in Afghanistan, dove il fenomeno che si voleva estirpare si è infervorato endemicamente.

In stati economicamente poco avanzati, dove i sistemi politici sono corrotti e autoritari, dove l’esclusione economica e politica della maggioranza della popolazione è sostanziale, questa prassi aggrava la situazione e fomenta focolai estremisti. È un dato di fatto utile per concepire soluzioni alternative di lungo periodo. Vanno poi chiarite le cause strutturali scatenanti di tale instabilità.

Si parla di una regione che – complici colonialismo e neo-colonialismo – non ha potuto progredire socio-economicamente. Pesa come un macigno una prassi commerciale profondamente ineguale ed escludente, che reca vantaggi ai soliti noti. Letto in quest’ottica, il malessere che imperversa in queste regioni, non è fattore “naturale”, bensì conseguenza di uno strozzamento economico – poggiante sul saccheggio delle materie prime – che si affianca a parallele ingerenze politiche. Com’è possibile che un territorio con risorse d’inenarrabile valore e quantità (oro, uranio, bauxite, gas, cotone, ferro, fosfato, granito e petrolio) possa ritrovarsi alla 178° posizione su 182 nell’indice dello sviluppo umano? L’enorme drenaggio di ricchezze che finiscono nelle tasche delle multinazionali estere e dell’élite locale (una borghesia compradora che ha studiato in Occidente e svolge il ruolo di proconsole della Francia, dell’Europa e degli Usa) deve essere preso in considerazione se si vogliono sinceramente tracciare ipotesi di risoluzione reale!

La paralisi socio-economica commista al malaffare dei governi corrotti, gli eserciti incapaci di proteggere le popolazioni, i capi di stato frutto di golpe militari (il governo maliano è risultato di un golpe del marzo 2012 e non ha legittimità popolare) e le condizioni di insicurezza democratica sono il risultato di decenni di pressioni, paternalismo e ingerenza francese che impediscono lo sviluppo di una graduale indipendenza. Da questa situazione trae linfa vitale l’islamismo jiadista. La soluzione strategica passa forzosamente da un concetto: sovranità (politica, economica e territoriale).

Una condizione che i francesi – al di là del colore politico dei loro governi – non hanno mai riconosciuto, essendo sempre intervenuti nei problemi interni di quei paesi che ricadono nella loro “area di influenza”, oltrepassando il diritto internazionale e i diritti umani delle popolazioni africane. La Francia, come gendarme interessato dell’Africa, ha intrattenuto rapporti con “regimi amici” africani – feudi la cui indipendenza è valsa una sequela di governi fantoccio preconfezionati – certo non emblemi della democrazia. Il Burkina Faso di Blaise Compaoré – prodotto della decapitazione del governo di Thomas Sankara, reo di aver conseguito gli interessi del proprio popolo, sostituito con un fantoccio dai servizi segreti francesi – è un esempio significativo. Le recenti avventure della Francia nel continente nero hanno dimostrato quanto essa sia claudicante nella gestione di contesti delicati: l’intervento del 2011 in Costa D’Avorio e quello in Libia del 2012 hanno aperto ulteriori contraddizioni.

La crisi economica pone la necessità di contare su un prezzo delle materie prime ottimale e non sottoposto a scossoni destabilizzanti. La sostenibilità dei profitti occidentali è dunque vincolata al controllo economico, politico e geo-strategico di aree ricche di risorse. La celebre frase del generale Karl von Clausewitz per cui “la guerra non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi” riecheggia con forza. La fascia di paesi del Sahel è stata confrontata con una progressiva colonizzazione militare ad opera della Francia e di altre potenze occidentali (gli Usa con Africom), ghiotte delle ricchezze del sottosuolo. Il Mali è il nuovo capitolo di questa operazione a vasto raggio per il controllo della regione.

Ciò è ancor più chiaro constatando la presenza di un temibile concorrente: la Cina – che avendo sviluppato, con i paesi del continente nero, una prassi commerciale e diplomatica imperniata sull’assenza di sfruttamento in campo produttivo e sul tentativo di favorire un processo di crescita economica stabile al loro interno – ha saputo attrarre nella propria orbita un corposo numero di stati africani. Il recente Nobel per la Pace conferito all’Unione Europea si è rivelato, alla luce dei fatti, una scelta quantomai azzeccata.

Aris Della Fontana,

Coordinatore Cantonale Gioventù Comunista (GC).


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