/

“Qui non siamo in democrazia”

L'autore
L’autore

Mi chiamo Andrea, ho 19 anni e sono un cittadino svizzero. Nel corso dell’ultimo anno ho trascorso gran parte del mio tempo presso la Confederazione, dapprima con il servizio militare, in seguito come civilista. Intendo ora condividere la mia esperienza, allo scopo di portare una testimonianza il più attendibile possibile su questi due mondi, cercando di filtrare la mia personale opinione politica, ma non potendo fare a meno di fornire una focalizzazione degli eventi dal mio specifico punto di vista. È importante anche premettere che il dibattito nel quale si inserisce questa dichiarazione, quello riguardante la votazione per l’abolizione della leva obbligatoria, concerne un contesto politico-economico molto ampio, del quale questo inserto non è che un tassello.

Il primo passo decisivo per tracciare la via del proprio contributo è la scelta che si compie durante il periodo di reclutamento. Una volta dichiarato abile fisicamente e psicologicamente viene il momento della scelta tra servizio militare e civile. Mi ritengo una persona piuttosto sensibile agli avvenimenti politico-militari e disdegno l’intervento bellico destinato al raggiungimento di obiettivi prettamente strategici. D’altro canto il servizio militare può essere svolto anche nella modalità “senz’arma” e in funzioni che prediligono l’aspetto del soccorso a quello marziale. Inoltre il servizio militare ha una durata inferiore a quello civile (1/1,5) e in un paese neutrale (anche se il concetto di “neutrale” è più che opinabile) e democratico come il nostro, la pressione che si mette sui militi è molto inferiore a quella presente in Stati dove la tensione è più alta.

Con la speranza di acquisire nuove conoscenze e di partecipare nella maniera più utile ed opportuna allo sviluppo del Paese, scelsi la via del servizio militare nella funzione di soldato di salvataggio, funzione che può essere sollecitata anche in assenza di conflitti armati, come nel caso di una catastrofe naturale (terremoti, incendi, forti piogge), e che fornisce nozioni utili anche nella vita quotidiana. Mi illudevo che l’organizzazione e i metodi militari, in Svizzera, nel 2012, si distanziassero con decisione dalla gestione frustrata, spesso assurda e incoerente, che vige in gran parte dell’immaginario popolare a proposito dell’istituzione grigioverde ed ero deciso ad appurare con i miei occhi lo stato delle cose prima di esprimermi sull’argomento.

Portati a termine quattro mesi previsti per la scuola reclute, non posso purtroppo che dover confermare la pessima fama che l’esercito si porta appresso. Spesso confrontato con situazioni al di là di ogni rigore logico o lontanamente democratico, condotte da superiori frustrati da una vita civile che non ha portato loro l’affermazione sperata e che abusano del potere conferitogli da gradi distribuiti per mancanza di aspiranti, più che per meriti oggettivi, posso affermare senza ombra di dubbio che in divisa ho trascorso la stagione più lunga, improduttiva e collerica della mia vita intera. Oltre ai limiti logici, si è confrontati con un sistema dall’organizzazione scadente, dalle convenzioni insensate e dalla burocrazia ancestrale, che, unite alla bassa motivazione di gran parte delle reclute, contribuiscono a creare un clima basato sul ricatto, iracondo e sterile di risultati. Un sistema caratterizzato dalla (ripida e) intransigibile ascendenza(arroganza, prepotenza) del potere, nei quali si distinguono gli individui più sottomessi e servili.

La frase che chiudeva il power point d’accoglienza del capitano, giusto per farci capire in che ambiente avremmo passato i quattro mesi seguenti, titolava prepotentemente: “Qui non siamo in democrazia”. Tanto per portare un esempio tra molti a conferma di questa affermazione si può ricordare la prassi che, in mancanza di volontari candidati all’avanzamento, permette ai superiori di costringere , secondo una clausola che passa inosservata nelle giornate di informazione e reclutamento, le reclute alla promozione, con le conseguenze temporali, fisiche e psicologiche che essa comporta. E ancora: cerimonie certamente non irrinunciabili; lavori e sforzi contro ogni indicazione medica (sotto il sole cocente, senza alcuna forma di stretching o prevenzione; gli svenimenti erano all’ordine della settimana); addirittura una recluta ticinese (invero già psicologicamente instabile, che sarebbe dovuta essere palesemente scartata al reclutamento) che, portata allo stremo della condizione psicologica, venne ricoverata all’OSC-CPC di Mendrisio dopo una crisi. L’amarezza più grande che l’esperienza militare richiama alla mia mente non riguarda però le peggiori condizioni climatiche, il sonno mancato o gli sforzi compiuti, ma piuttosto tutta la rabbia presa per l’incoerenza, l’irrazionalità e l’ingiustizia di quell’ambiente.

I punti positivi sono pochi, minimi di fronte all’immenso baratro di raziocinio che quotidianamente accompagnava le nostre giornate: i solidi rapporti che si vennero a creare con i commilitoni, impreziositi dallo spirito di solidarietà che lega le persone che condividono gli sforzi quotidiani e che si aiutano reciprocamente; alcune apprezzabili nozioni di carattere tecnico e umano, pagate però a caro prezzo. La mia sensazione è che la funzione, fondamentale e indispensabile, del salvataggio necessiti un aggiornamento nell’approccio, nel confronto e nella gestione dell’istruzione e dell’applicazione sul campo.

Dati quindi lo svolgersi degli eventi e la volontà di sottrarsi a tali rigidi meccanismi, decisi passare al servizio civile, con la speranza di trovare un ambiente nel quale prevalesse il senno, nel quale la ragione precedesse l’ordine.

Come civilista ho lavorato per tre mesi in un ostello della gioventù, in cucina, alla manutenzione dello stabile e in réception. Un lavoro comunque impegnativo, lontano dalle mie aspirazioni di attività ideale, ma al quale riuscii ad applicarmi con degna motivazione, per via dell’ambiente più sereno, organizzato e delle decisioni mediate tra capo e dipendenti. Trovandosi l’ostello nel canton Sciaffusa, il mio turno era programmato in modo che potessi tornare in Ticino ogni due settimane e tra collaboratori ci si veniva incontro gestendo gli orari secondo le rispettive necessità, senza alcun rallentamento burocratico. Sebbene si trattasse di un lavoro di routine, ho potuto acquisire competenze utili anche nella vita di tutti i giorni e, finito l’orario di lavoro, potevo dedicarmi liberamente ai miei hobby senza confini né bruschi richiami all’attività.

Credo però che l’argomento più positivo del servizio civile, unitamente alla conduzione di una realtà basata sul rispetto reciproco e sulla ragione, sia stata l’impressione di fare qualcosa di effettivamente utile, che corrisponde ai nostri sforzi un beneficio percepibile e appagante.

Se volessimo sintetizzare con pochi aggettivi questi due mondi, separati dal solo bivio del reclutamento il confronto sarebbe imbarazzante: dalla subordinazione alla collaborazione, dal caos all’organizzazione, dall’insensatezza alla buonsenso.

Andrea Ghisletta

1 Comment

Lascia un commento