Lo scorso 23 settembre, quattordici coraggiose/i consigliere/i nazionali hanno affrontato le avversità sostenendo in parlamento la causa del reddito di base incondizionato, un’iniziativa popolare firmata da ben 125’000 persone. La maggioranza dei loro colleghi l’ha giudicata nel migliore dei casi utopica, e nel peggiore semplicemente stramba, stupida, insensata, delirante, irrealista: questa proposta, secondo taluni, sarebbe addirittura la più assurda mai sottomessa al parlamento. Disturbare gli eletti con delle tali scemenze, è un crimine di lesa maestà! I firmatari apprezzeranno…
Di che cosa si tratta? Accordare ad ogni cittadino, dalla sua nascita alla morte, un sussidio senza contropartite, di cui il comitato di iniziativa non ha fissato il montante ma che stima a 2500 franchi al mese per adulto e a 650 franchi per bambino. Vabbè, detto così, lo ammetto, suona pazzesco! Ma bisogna sapere che di sussidi ne esistono già parecchi: rendite, indennità, aiuti vari, pagamenti diretti, sovvenzioni, borse,… Insomma, l’idea è di mettere tutte queste cose in un calderone comune e di non sprecare più delle cifre in tempo e denaro per definire la categoria di ogni beneficiario o per sviluppare dei trucchi da Sioux per scovare chi commette degli abusi. Per dirla altrimenti, si tratta di sostituire la morale caritatevole con l’uguaglianza, di rimpiazzare l’aiuto sociale con una base comune uguale per tutti.
A dire il vero, la questione non ha nulla di ridicolo: sono in gioco il senso ed il futuro del lavoro salariato, e i valori ad esso associati. Per la sinistra storica, il lavoro resta l’elemento emancipatore per eccellenza. “Il lavoro rimane un mezzo importante d’espressione e di realizzazione personale, oltre che un fattore essenziale di integrazione sociale”, ha ricordato un parlamentare socialista in occasione del dibattito in Consiglio nazionale. Molto bene, ma quale lavoro? Un lavoro sempre più precario, sotto pressione, flessibilizzato, parcellizzato, minacciato, delocalizzato, dislocato, discriminatorio, individualizzato, contaminato dalla concorrenza? È questo che forgia l’identità e che dà al lavoratore la sua dignità? Più grave ancora, gli economisti stimano che il pieno impiego è un obiettivo ormai irraggiungibile: alle macchine e i robot non importa un granché della realizzazione personale dei salariati!
Ciò che più fa sbraitare le persone per bene, è l’idea che con un reddito di base garantito, a nessuno verrà più l’assurda idea di lavorare. Alcuni celebreranno la fine del lavoro sprofondati nel divano, aspettando che i soldi piovano dal cielo; i più poveri si auto-escluderanno definitivamente dal mercato del lavoro; e le élite concentreranno i loro sforzi per rimpolpare il loro reddito di base con i loro grossi salari… Perché, vedete, al di fuori dell’impiego niente sembra poter generare dignità né meritarsi d’essere chiamato lavoro: né i compiti casalinghi, né l’aiuto del prossimo, né l’educazione dei bambini, e ancora meno il piano, il coro, il teatro, la condivisione dei saperi, le associazioni, la gestione di gruppi e cooperative, lo sport, l’artigianato o la politica. Eppure si tratta di attività che creano dei legami e della solidarietà, oltre che della ricchezza: secondo certe stime, solo un terzo delle attività necessarie alla vita sono remunerate.
Verrebbe da chiedersi che cosa si nasconde dietro l’amore quasi religioso che gli Svizzeri hanno per la fatica e il lavoro? Forse qualcosa di meno confessabile? Qualcosa come la paura del vuoto, un’angoscia esistenziale che li spinge meno ad amare il loro duro lavoro che a detestare i pigri, astiosamente qualificati di fannulloni, approfittatori o di parassiti. Capita che la virtù odii il vizio più per gelosia o per vigliaccheria che per senso della morale.
Il dibattito che s’instaurerà in vista della votazione dell’anno prossimo comporta anche un’altra questione: il progetto del reddito di base si scontra con il capitalismo, contestando l’alienazione del processo produttivo e dando ampio spazio al volontariato, all’economia di condivisione e alla sobrietà volontaria. “Ogni ricchezza è prodotta da qualcuno ed appartiene a qualcuno”, scriveva recentemente su Le Temps, a proposito di questa iniziativa, il direttore dell’istituto “Laissez faire”. E se partissimo dal presupposto opposto? La nostra terra, le sue risorse, il vento, il sole, l’acqua, l’energia, il sapere, i patrimoni genetici, umanitari e culturali sono dei beni comuni di tutti. Nel 2013, la fortuna mondiale totale raggiungeva 241 000 miliardi di dollari. Una gran parte di questa somma esorbitante è stata generata dalle speculazioni del capitalismo finanziario, e non da un lavoro produttivo. È una bella scusa, l’etica del lavoro con la quale continuano ad assillarci! Non sarebbe ora che questa ricchezza ritornasse al suo vero proprietario, l’umanità tutta intera?
Anne-Catherine Menétrey-Savary, già consigliera nazionale
Fonte: Le Courrier, venerdì 9 ottobre 2015.