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Berlinale 2016, una panoramica

“Fuocammare” dell’italiano Gianfranco Rosi non ha la pretesa di offrire spiegazioni o soluzioni, racconta solo, con estrema, toccante educazione, con rispetto, l’oggi del mondo, di cui Lampedusa è uno snodo epocale. Il mare, il sole, le albe e i tramonti di infinta meravigliosità, che trovano sempre vigili le forze dell’ordine italiane impegnate nella salvezza dei migranti, gli agresti e violenti arbusti mediterranei, le barche della speranza, la morte e il pianto, la vita e il futuro, tutto si fonde, trasformandosi in una poetica filmica di sincera intensità.

“Ma révolution” di Ramzi Ben Sliman è dapprima spumeggiante, poi abbastanza scontato ma nel complesso riuscito, storia di un amore tra un ragazzo e una ragazza, lei francese, lui tunisino nato a Parigi. Siamo nel gennaio 2011 e la Rivoluzione contro il sanguinario Ben Ali porta Marwan a scoprire il mondo con la leggerezza, ma anche l’impegno che si possono avere a quindici anni. Il popolo tunisino scrive la sua storia e a suo modo Marwan scrive la sua, tra personale e collettivo, imparando dalla e nella piazza.

Bendek Fliegauf già a Berlino nel 2012 con “Csak a szél”, ferma denuncia del montante razzismo e della forsennata violenza contro la comunità zigana magiara, torna con “Liliom Ösvény”. Una colonna sonora volutamente disturbante accompagna il film durissimo e al contempo di raffinata fattura, ogni fotogramma sprofonda nel disagio e nella violenza. L’amore tra madre, interpretata con maestria da Angéla Stefanovics, e figlio resta impotente, pur nella sua generosa limpidezza, impossibilitato a riscattare tutto quello che è venuto prima della loro relazione. Loro sopravivranno, ma senza emanciparsi dagli orrori che hanno attraversato la madre e che il figlio sintonicamente percepisce.

“Homo sapiens” dell’austriaco Nikolaus Geyrhalter ci ricorda che è privo di qualunque sapienza un uomo che si vota all’autodistruzione, distruggendo il mondo che lo circonda, la scomparsa dell’uomo dalla terra, pronosticata da molti scienziati, lascerà un’apocalisse silenziosa di cemento, in cui la pioggia, il vento, la vegetazione riprenderanno il sopravvento. Questo ci racconta il regista con forza dirompente in un film in cui parla solo il vento, e privo di esseri umani, ma in cui l’orrore dell’uomo, il suo costruire distruggendo e poi abbandonando, contaminando, inaridendo, sfigurando la terra, resta muta condanna di una stupidità che non ha limiti e non si sente responsabile nel negare un futuro alle generazioni più giovani.

Riuscito “Yarden” di Måns Månsson, denuncia di come il capitalismo riduca a numeri senza dignità i lavoratori, anche nella Svezia che vanta un affermato stato sociale, una brutalizzazione legale e silenziosa che svuotando le persone del senso della vita le ammutolisce nella necessità di garantirsi il pane per vivere.

“Triapichniy Soyuz” del russo Mikhail Mestetskij è forzatamente giovanilistico, sfilacciato, più confuso che anarchicheggiante, racconta una ribellismo giovanile già troppe volte e con più intelligenza declinato, perdendosi in riva al lago nei dintorni di Mosca, dove, in qualche modo, si smarriscono anche i protagonisti del film.

“Rauf” di Barış Kaya e Soner Caner parte da una fotografia toccante, accurata e poetica, ma scade in manifesto a favore dei separatisti curdi, così che la storia del bambino strappato ai banchi di scuola per diventare apprendista di un carpentiere che appresta bare per i combattenti  curdi e gli anziani del villaggio anatolico sferzato dalla neve, scolora dentro le finalità politiche che i due registi hanno voluto privilegiare.

“Manazil bela abwab”, ovvero “Case senza porte” di Avo Kaprealian, ricercatamente grezzo nella forma, con velleità stilistiche autoriali, il racconto degli armeni d’Aleppo dentro la guerra di questi anni non solo è un film triste per la tragedia che racconta, ma per l’imperdonabile leggerezza del regista che cerca di mantenere una assurda e impossibile equidistanza tra i terroristi che insanguinano il paese e il governo siriano che cerca di ristabilire la pace.

Mezzo secolo fa la DDR rinuncia a distribuire “Karla” realizzato nel 1965 da Herrmann Zschoche, perché ritenuto un film superficiale, visto oggi non si può che dare ragione a chi ha compiuto tale scelta, perché tutte le buone intenzioni del film si perdono in una serie di banalità e di leggerezze che sviliscono il pur meritorio intento degli autori di realizzare una pellicola antiburocratica.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.

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